Psicologia per l’età evolutiva
Nel lavoro con bambini e adolescenti mi baso sul modello dinamico-maturativo della teoria dell’attaccamento di Patricia M. Crittenden. Tale modello aiuta a ridefinire i problemi e a suggerire quando e con chi utilizzare i vari strumenti esistenti per generare cambiamenti psicologici. Dalle primissime interazioni con la figura di attaccamento, il bambino impara specifiche modalità di regolazione emotiva. Vi sono bambini che regolano le emozioni “in eccesso”, ossia che esprimono in forma drammatica e teatrale i propri stati emotivi per tenere sempre alta l’attenzione dei genitori verso di loro. All’opposto vi sono bambini che tendono ad evitare il riconoscimento e l’espressione delle emozioni, con particolare riguardo a quelle negative. Essi regolano i propri stati emozionali in maniera autonoma ed interna; se dessimo voce al bambino, potrebbe dire “tranquilla mamma, non preoccuparti di me, me la cavo bene, ce la posso fare da solo”.
Un’accurata conoscenza e articolazione delle proprie emozioni costituisce la base fondamentale per sviluppare un’adeguata capacità di regolazione degli stessi stati emotivi e quindi un sufficiente grado di benessere psicologico. Si potrebbe dire che laddove c’è un sintomo, c’è una particolare area emotiva scarsamente riconosciuta e articolata nel bambino. In sintesi, i bambini con una limitata comprensione degli stati emotivi sono più soggetti a manifestare problematiche di tipo psicopatologico e mancanza di competenze sociali. In tale prospettiva, il lavoro terapeutico con questi bambini e le loro famiglie dovrà essere volto alla co-costruzione di un repertorio più ricco e flessibile di modi di essere in relazione con l’altro.
La presa in carico di un bambino o di un adolescente richiede sempre una qualche forma di coinvolgimento o trattamento anche dei genitori o, comunque, delle figure di accudimento. Il processo psicoterapeutico ha inizio con una prima fase di assessment, che ha l’obiettivo primario di giungere alla ricostruzione del problema presentato. Il passaggio alla fase di terapia vera e propria è segnato dalla definizione del contratto terapeutico, ossia degli obiettivi di lavoro. La terapia con i genitori consisterà essenzialmente in un lavoro di ricostruzione delle situazioni critiche accadute con il figlio, verificatesi nella settimana tra una seduta e l’altra, in ambito sia familiare che extra-familiare. L’obiettivo sarà quello di far acquisire a ognuno la capacità di mettere a fuoco le proprie emozioni e il senso di sé in relazione al rapporto con il partner e ai comportamenti del bambino ritenuti problematici; cercheremo inoltre di sviluppare ulteriori chiavi di lettura sul partner e di riuscire a dare un significato agli atti del bambino. La terapia con il piccolo paziente si svolge in un contesto dinamico e creativo, attraverso il gioco, il disegno e la drammatizzazione. Il terapeuta si affianca al bambino e con lui gioca, ride e soffre per permettergli concretamente di esplorare nuovi modi di interagire con l’altro. Il terapeuta agisce con il bambino attraverso giochi comportamentali, in modo equivalente a come agisce verbalmente con l’adulto, tramite giochi linguistici.
Psicologia per l’adulto
La terapia cognitivo-costruttivista mira alla comprensione, ad aumentare i margini di consapevolezza e coscienza di sé del paziente. Le emozioni negative, la depressione, l’angoscia, la rabbia ecc., non sono aspetti da considerare irrazionali, possibilmente da escludere o da controllare completamente; al contrario sono dei fenomeni normali e la terapia induce verso di essi un atteggiamento di interesse. Il modo migliore di controllare queste emozioni che sono spiacevoli, è proprio quello di metterle a fuoco, di capirle; se c’è un’immagine spiacevole la si mette in bacheca, in moviola, per studiarla. Si punta dunque sulla comprensione, e questo atteggiamento comincia sin dai primi cinque minuti di seduta.
Il terapeuta di questo approccio non si pone come garante di razionalità, non usa standard universali validi per tutti. Se un’azione del paziente è razionale o no, lo si può decidere unicamente in riferimento a quello che è il nucleo del paziente, il suo significato personale, non rispetto alla visione del terapeuta.
Nella terapia cognitivo-costruttivista, il paziente dunque ha una sua realtà, una sua verità e quello che si propone non è di correggere bensì di capire. Di conseguenza il sintomo non viene curato come fosse un deficit ma si cerca assieme di coglierne la funzione, rendendone possibile un’accettazione o addirittura una valorizzazione e un cambiamento basato sul riconoscimento dell’utilità che il sintomo può avere. Il paziente viene dunque invitato a vivere la parte di sé sofferente non come una sorta di orrore da dimenticare ma come un’occasione per conoscersi meglio. Il cambiamento comincia con l’accettazione di sé e non lottando contro il sintomo.
E’ fondamentale il coinvolgimento del paziente, affinché sia lui ad agire in prima persona, affrontando e risolvendo il problema.